Il cielo era dello stesso bianco smorto delle pareti, gravido di una pioggia che quel giorno non sarebbe mai caduta. Romano come sempre respirava a fatica per via dell’aria appesantita dalle polveri di pietra e la sua bottega, con quel suo aspetto così asettico, sembrava un obitorio dove ogni giorno un po’ di lui moriva ma dove nascevano opere che lo avevano reso famoso in tutta la città.
Al centro della stanza c’era un blocco di travertino che lo aspettava come un pensiero ancora inespresso e Romano, immerso in una luce fioca che lo avvolgeva come una placenta, iniziò a inciderlo con lo scalpello. Doveva scolpire un uomo disteso che sarebbe stato posto su una tomba e ci dava giù come solo lui sapeva fare, lavorando di braccia e mani; picchiava forte su quella dura roccia millenaria e a ogni colpo un po’ di secoli ne schizzavano via. Le nuvole continuavano sterilmente a ingrossarsi e lui colpiva e ricolpiva il blocco con una ferocia primordiale, come se a premere sullo scalpello ci fosse il peso di tutta la dannata umanità. Ora era arrivato allo strato più antico, vi si potevano scorgere ancora i solchi di remoti rigagnoli d’acqua o le tracce fossili di qualche animale ormai estinto, ma Romano non si fermò e continuò finchè di quel blocco di pietra non rimase più nulla. Stremato gettò via gli strumenti e si distese per terra, poi chiuse gli occhi e rimase immobile, lasciando che tutta la polvere di travertino ancora sospesa nell’aria si depositasse sulle sue palpebre.
© Rodolfo Veneziani, disegno di Lorina Zeka ©
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