Era una barcaccia, la vernice della sponda aveva preso lo stesso colore del fango sui cui era stata abbandonata per anni, ma filava veloce sul fiume in direzione del sole.
Remo – il suo nome sembrava il suo destino – vedeva poco o niente davanti a sé per via della luce accecante e confidava nella forza invisibile del vento per andare avanti, il vento sulla pelle era l’unica sensazione a renderlo consapevole di avere ancora un corpo e non essersi disciolto in quel bagno di luce. Gli argini rigogliosi che strappavano a fatica un po’ di terra al fiume, un paio di cormorani e qualche casupola disabitata erano le uniche cose che riusciva a scorgere e per farlo doveva volgere lo sguardo indietro, dalla parte opposta al sole e alla corrente; man mano che Remo avanzava, quelle cose, gettate lì a caso chissà da chi, emergevano dalla luce e mentre lo facevano appartenevano già al passato, a qualcosa da cui Remo si stava allontanando e che presto si sarebbe dissolto assieme alla scìa della sua barca.
Non pensava a nulla, non riusciva a pensare a nulla, continuava a filare sull’acqua melmosa, distratto solamente dal ronzìo fugace di qualche mosca. Poi improvvisamente Remo smise di remare attirato da un folto gruppo di ninfee e si mise a osservarle: come facevano a vivere, a crescere con le radici in quell’acqua così torbida? Ma il tempo stringeva, l’aria si faceva più densa e Remo riprese a scivolare via, verso quel punto, anzi quell’assenza di punti in cui la luce accecante del sole si confondeva con i mille bagliori riflessi dal fiume.
© Rodolfo Veneziani
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